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Dal greco aisthesis, sensazione, “estetica” designa quel piano dell’interrogazione filosofica che mette al centro l’esperienza sensibile. Che tipo di rapporto con il mondo stabiliamo attraverso i sensi? Che cosa significa sentire? Che cosa resta prima e dopo ogni nostra interazione puramente razionale con le cose? Al centro di tutte queste domande sta la questione dell’“apparenza”, l’ambito non necessariamente di ciò che svia o inganna, ma di ciò che immediatamente (ci) parla e (ci) si manifesta.
Da ben prima che l’estetica si costituisse nel Settecento come disciplina autonoma, la filosofia si interroga su questo livello originario (e perciò sempre sfuggente) dell’esperienza, con alterne focalizzazioni e restringimenti. L’indagine sull’apparenza e sulla sensazione si precisa ben presto come indagine su ciò sollecita la nostra sensibilità in modo eminente: il bello, che Platone definisce, non a caso, “ciò che è più apparente”. Nella modernità, il problema del bello diventa a sua volta in un senso privilegiato il problema delle (belle) arti, in quanto luogo di un’apparenza spiritualmente connotata. Ma l’estetica affronta nuove riformulazioni anche e soprattutto nel contemporaneo, quando i confini dell’artistico diventano sempre più sfumati, e la filosofia, che a lungo ha respinto l’“estetico” ai margini, sente un inedito bisogno di convocare l’eccedenza della dimensione sensibile.
Compito del corso sarà tentare di navigare alcune di queste traiettorie, in un senso tanto storico quanto critico, con l’intenzione di destare – in chi aspira ad occuparsi di arte – consapevolezza e attenzione per quella misteriosa semplicità del sentire in cui proprio l’arte, innanzitutto e più di ogni altra occupazione umana, insiste e abita.

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