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«Una cosa l’avevo capita di questo Sebastião Salgado: gli importava davvero degli esseri umani. Dopotutto gli esseri umani sono il sale della terra» – spiega Wim Wenders a un dato punto dell’omonimo film dedicato al fotografo brasiliano (Il sale della terra, 2014), riflettendo sulla prima foto salgadiana conosciuta e amata sino alla commozione – come il regista stesso racconta nel corso film: il ritratto di una vecchia Tuareg cieca. Un ritratto davvero quasi velazqueziano a guardarlo. I grossi granelli di «sale della terra», come Sebastião Salgado, purtroppo diminuiscono in questo nostro tempo povero nell’essenza, ed essenzialmente povero come scriveva il filosofo. Scompaiono come i grandi ghiacciai. I nevai che forse i climatologi di oggi non sono più disposti a dichiarare ‘eterni’.

 

Difficile disgiungere l’opera di Salgado dai viaggi e dagli itinerari, dai sodalizi con le comunità visitate, con i popoli raschiati, cancellati dalla superficie della terra, pari a quei Ghiacciai cui è dedicata, per l’appunto, l’ultima risorsa del suo lungo reportage e omaggio alla Terra: destinato a diventare involontariamente l’ultimo messaggio e documento consegnato alla mostra in corso al MART di Rovereto sino a settembre. Ma per certo, se vogliamo svolgere il filo della sua lunga professione di viaggiatore e documentatore della Terra – sino a oggi che la sua vita si è interrotta – potremmo dire che Salgado non ha fatto altro che biforcare la similitudine del «sale» e del suo sapore nella direzione di un mondo fatto di luci e di ombre esattamente come il linguaggio fotografico. Una biforcazione che è oltretutto una catabasi e un’anàbasi: la prima nelle tenebre della Serra Pelada brasiliana – nella bocca di quella miniera che è rappresentazione di un formicaio bruegeliano di umani minimi e sottovalutati che transitano su e giù, scivolano, sgusciano – e ovunque l’obiettivo si sia rivolto all’affresco terrestre di Exodus. La seconda, per scrivere quella “lettera d’amore al pianeta” (Wenders) intercettando popoli altrettanto lontani ma vicini all’alba e alla nascita della Terra, dove l’ombra del lucro non batte (pur sempre tra i disagi da noi portati), in Amazzonia, nell’America Latina profonda dei Saraguro o nella Siberia dei Nenet: tra renne tende fuochi in perenne spostamento pari a tutti i popoli nomadi che sono anteriori, per mentalità, alla religione del Libro e della Terra Promessa. Laddove il necessario per vivere è dato dalla riscoperta della condivisione; e in luogo delle questioni sociali sussiste una ricerca della felicità come qualcosa che si può abbracciare attraverso la vita fraterna di una comunità.

 

La morte improvvisa di Salgado invita dunque a due note di cordoglio: la prima di carattere universale, la seconda di indole più nostra e istituzionale. Anzitutto per la compassione e il fare politico autentico che la sua arte ha rappresentato nel mondo, con la denuncia delle responsabilità comuni circa le spregiudicatezze di una tecnica che sconfina con il potere della politica e con la consumazione delle risorse naturali e dei diritti umani. 

Tornano alla mente, in proposito, certe affermazioni di José (Pepe) Mujica, il grande leader popolare ex Presidente dell’Uruguay, anch’egli morto da pochissimo, nell’ambito di una conversazione con Luis Sepúlveda e Carlin Petrini tenutasi all’Università di Milano nel 2016 e ora rintracciabile nel libro Vivere per qualcosa (Guanda 2017) la cui lettura raccomando caldamente. «Se il progresso non comporta che la gente provi una maggior gioia di vivere, allora siamo di fronte a un progresso falso», oppure «contrario rispetto alla coerenza nei confronti del ragazzo che ti porti dentro, che desidera, sogna e tenta di lottare per un mondo migliore, altrimenti ti rassegni a condurre una vita nel solco tracciato dalla realtà di mercato». Un pensiero che poteva condividere anche Sebastião Salgado nel trasferire alle immagini potenti dei suoi cicli, gli stessi disastri, le stesse liturgie, la stessa disperazione rugosa di una storia della fame che cammina dal Sahel, all’Etiopia, al Mali, al Ruanda ecc. A tutte le «periferie» generate dalla potente società di mercato. Quelle «periferie» di cui parlava umilmente e laicamente Papa Francesco. Le «periferie» disumane di questo piccolo pianeta fotografato da Salgado.

 

Ma vorrei esprimere anche, se posso, una nota di cordoglio istituzionale. Mentre le agenzie ansa lanciavano la notizia della morte di Sebastião Salgado, Silvio Cattani vicepresidente del MART con il quale l’Accademia di Urbino sta entrando in collaborazione, mi comunicava che Salgado, recandosi in Italia a metà giugno, avrebbe volentieri concordato una data anche per Urbino, per incontrare la comunità studentesca e per ricevere quel «Sigillo delle Arti» che gli era stato proposto e che aveva accettato volentieri. Credo che incontrare Salgado per i giovani sarebbe stato come incontrare l’Altrove, un territorio della coscienza che si può riassumere con certe parole di Carlin Petrini dal libro testé citato: «Non è l’assenza di problemi che ci dà la felicità, al contrario fronteggiare le difficoltà, di qualunque natura siano, mettersi in gioco per superarle, lottare per cambiare una situazione ingiusta, questa è l’essenza della felicità». Vivere per qualcosa, insomma. Questo l’augurio che la morte di Sebastião Salgado può rivolgere alla vita di ogni giovane.

 

Luca Cesari

 

©Renato Amoroso

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