Il corso si propone come un laboratorio in cui confrontare universi di pensiero differenti, tradotti attraverso specifici mezzi espressivi, cercando così di guadagnare maggiore consapevolezza in merito alla propria visione artistica. Il punto di partenza saranno le opere degli studenti, dalla cui analisi si cercherà di sviluppare direzioni di ricerca già in atto o del tutto nuove. Per analisi si intende innanzi tutto un’attenzione critica alle opere intese come esiti di specifici processi formali, ragione per cui un determinato segno (o gesto o inquadratura o movimento ecc…) si fa portatore di un determinato universo poetico. In senso più pratico si tratterà di capire, ad esempio, la differenza tra un limone realizzato con un unico gesto e un altro creato attraverso una sagoma piatta, così come tra un corpo che si muove nello spazio con un’andatura naturale e un altro che tra un passo ed un altro inserisce delle pause, oppure tra un’inquadratura a camera fissa da cui si allarga lentamente il campo ed un’altra in cui la camera ruota intorno a se stessa per filmare una panoramica, eccetera. Sintetizzando: si invita a vedere nella risoluzione formale il significato dell’opera e nelle narrazioni aggiuntive, ad essa esterne, l’ausilio per compensare una maggiore o minore elaborazione linguistica.

 

 

Il primo aspetto del corso riguarda quindi la produzione dell’opera intesa come messa a fuoco dei mezzi espressivi idonei a esprimere una visione individuale, dunque la relazione tra autore e opera in senso stretto, dalla genesi al suo compimento. Il secondo invece riguarderà la vita dell’opera finita, il suo abitare nello spazio espositivo, ovvero quanto un determinato ambiente o contesto vanno a incidere sulla sua fruizione. In termini di ambiente, se nei Salon ottocenteschi la visione dell’opera si dava ancora come una successione di immagini in grado di saturare un’intera parete, almeno quanto un secolo dopo un cerchio di pietre sottratto paesaggio poteva vivere nella stanza di una galleria, eccetera eccetera, oggi si tratta di riformulare le modalità espositive prendendo atto della virtualizzazione promossa dai dispositivi di realtà aumentata e tutto il resto. In termini di contesto invece, se l’arte astratta americana del secondo dopoguerra ha creato l’idea del white cube per rendere visibili superfici monocrome che diversamente si sarebbero potute scambiare per decorazioni parietali, così come il cinema all’inizio secolo scorso aveva creato dei luoghi specifici per raccogliere il nuovo pubblico dell’immagine in movimento, eccetera eccetera, oggi è necessario riformulare i volumi dello spazio espositivo alla luce dei nuovi display di fruizione del reale.

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